Aimone Sambuy

aperlay
2 ottobre_9 novembre 2008

APERLAY

Da qualche tempo aveva smesso di ricordare con precisione. Non avrebbe più saputo dire se quella roccia rossastra e appuntita che affiorava dalla memoria, colore delle palpebre ad occhi chiusi, fosse il promontorio meridionale di un isola del Tirreno, o qualche montagna del Nord Africa che aveva visitato subito dopo la guerra. Non sapeva neanche più con chi ci fosse stato, e perché. La guerra poi dovevano averla persa. Non c’era traccia di vittorie nel suo modesto appartamento, non una medaglia, non le uniformi, non le fotografie del trionfo. Sulla mensola solo una coppa vinta durante l’infanzia per qualche stupida gara. Ma neanche della sua infanzia era certo. Sapeva di essere sempre stato un bravo ometto, da bambino si intende, come gli avevano chiesto di essere. Così fu subito adulto, e poi molto dopo in età matura, sempre più piccolo, fino a ritrovarsi in una culla dalle pareti invalicabili di un vetro verdastro. Di là dal vetro i pesci. Scaglie di mica e ombre grigie, pinne e occhi d’argento sgranati e lucidi, branchie e squame di smeriglio, si torcevano nel buio contro le tende e le tappezzerie di tutte le vecchie case umide che aveva abitato. Se chiudeva gli occhi nel pomeriggio, oltre a quel colore di ruggine e di malva che appariva sfolgorante, appena oltre, scorgeva il profilo di una costa gialla e deserta, macchiata da una bassa vegetazione rinsecchita. Poi altri profili disegnati a china come nei portolani, si sovrapponevano confondendosi, fino a che la sera e dopo la notte, cancellavano quasi tutto in un blu di velluto punteggiato da tante piccole luci di diamante. Quelle in alto dovevano essere la case dei villaggi aggrappati alle scogliere, in basso sulla linea dell’orizzonte forse lampare, o i magazzini dei pescatori. Il vento portava l’odore di terra e di ginepro e il suono di una voce o una musica, come una nenia strascicata che metteva i brividi. Sempre di notte sulla spiaggia, aspettando che Giovanni il motorista tornasse a prenderlo dopo aver calato i tramagli, era comparso il Minotauro in persona tra i cespugli di mirto. Certo che il toro aveva muggito, e forse ma non ne era sicuro, era anche avanzato minaccioso. Lui dal terrore si era aggrappato a un tronco portato dalle onde e remando con le mani strillava per sottrarsi alla furia della bestia, fino a che a poche bracciate dalla riva fu ripescato nel ridicolo e punito con il salto della cena. La notte non aiuta quasi mai i bambini, sebbene dopo a prua, navigando nel buio avvinghiato allo strallo, il ronzio dei due grossi motori diesel gli mise quasi a posto lo stomaco sottosopra per la paura, la vergogna e la fame. Matteo il cuoco più tardi e di nascosto, gli aveva portato alcune gallette che aveva mangiucchiato con un groppo in gola. In altri tempi, poco prima dell’alba, arrivava il profumo della pizza appena uscita dal forno di bordo e distribuita dal nostromo. La guardia da mezzanotte alle quattro intorpidiva gli animi e appannava i riflessi, si doveva scrutare l’orizzonte e segnalare le posizioni di altri bastimenti. Luce di via, verde, ore dieci. Non era facile capire se l’altra nave fosse sfilata a dritta senza pericolo o potesse essere in rotta di collisione, ma la promessa della pizza cancellava ogni timore. Luca il sottotenente, il primo a servirsi, avrebbe saputo cosa fare. Rilevava il turno ripetendo beffardo: quando da Montecristo si vede la Capraia, Dio prima li fa e poi li appaia. Al traverso lampeggiava il faro della Meloria, e dietro tutta la città di Livorno che pareva l’inferno agghindato a festa per l’arrivo di Belzebù. Si andava più a sud, e nell’aria umida della notte cresceva uno strano sentimento di aspettativa, di cosa impossibile dirlo. Non che si volesse mettere piede a terra, ma le luci sull’acqua baluginavano negli occhi come i riflessi sui muri delle stanze nei pomeriggi in campagna, e facevano tanto pensare al letto di casa. Dopo, dovevano anche esserci state molte ore di attesa nel mezzogiorno rovente, non una, ma infinite volte. Si aspettavano genitori, ordini, cattivi caporali, autobus, e quelli portavano a treni che raggiungevano altri autobus, e il caldo era sempre così spesso da poterlo tagliare a pezzi e costruirci poi un forno. A Civitavecchia l’aria del pomeriggio d’agosto è piombo fuso. Un baracchino vende noci di cocco, e le fettine disposte a stella sono annaffiate da getti d’acqua fresca. Solo a vederle passa la sete, ma la polpa dura e quel sapore di corda asciuga la bocca e si è da capo. L’odore delle sarde in cassetta prende alla gola, l’autobus sa di similpelle dolciastra, lo scompartimento è fumo di Nazionale semplice, sudore e buccia d’arancia. Sfilano campi bruciati, pini marittimi, agavi e oleandri, il nero delle gallerie, e naturalmente il viso imbronciato di lei quando cantava sommessa

mamma voglio Benello
che ha un bel mantello, rosso
se Benello non ho
la morte mi do
qua qua cortello che me lo pianto nel cuor.

A forza di invocarlo, Benello l’aveva poi avuto e ci si era anche trovata bene, così immaginarla nel suo vestito di cotone a righe bianche e gialle faceva male e rabbia insieme, ma tant’è. Sì che veniva da piangere. Ma i bambini e gli uomini non piangono, specialmente quando prendono treni per fare cose importanti come andare di qua, andare di là, affrontare il nemico, l’amico, i clienti, i concorrenti, e tutti i sacrosanti giorni. E pensare che molto tempo dopo ritenne che una delle cose migliori che gli fosse capitata in vita era quella di aver fatto affari in oriente. Si vendevano stracci all’epoca, e in cambio si riportavano oro, incenso e mirra, e anche noce moscata, pepe rosso e nero, e profumo d’ambra grigia. Dal Giappone perle di mare e dalla Cina quelle scaramazze di fiume. Le ultime erano piccole e parevano meno preziose, ma erano perfette per ricamare vestiti, e le mogli dei mercanti di Prato ne erano golose più che dello zibibbo. Non si costruì mai una fortuna, ma vide il mondo e questo è gia molto, e in più rese contenta molta gente, che alle loro mense non fece mai mancare nulla. Al fagiano incollava le piume che ai commensali pareva più vero di quando starnazzava davanti al fucile, al maiale guarniva il sorriso con mele caramellate e i dolci li lucidava a polvere di stelle, così che il sorriso delle signorine pareva un tintinnare di cristalli e si mescolava con grazia allo scampanellio dei brindisi a sciampagna francese. In cucina più tardi il cuoco apriva un barattolo di acciughe e servendole con pane, burro e limone diceva – Questo è il cibo dei re- e mai si era sentito nulla di più vero. Era stato il re del mondo allora, aveva visto la Meneghini Callas sul lungomare di Rapallo, aveva stretto la mano al Kabaka di Buganda, e posteggiando l’automobile davanti alle fabbriche, negli uffici, alle poste, nei Bar, e anche ai Bagni Miramare, era tutto un buongiorno dottore, certo dottore, come vuole dottore. E ne aveva fatti di chilometri su e giù per lo stivale. A contarli bene potrebbero essere 30 volte il giro del mondo e più. Se poi fosse venuto in mente di calcolare tutte le soste nelle stazioni di servizio, allora sì che i numeri sarebbero diventati sbalorditivi, e a chiunque sarebbe nata prepotente la tentazione, di chiedere alla società che li gestisce l’1% delle quote in cambio di tanta devotissima fedeltà. Sembrava uno sprovveduto, ma credetemi l’aveva capito da un pezzo che finita la bottiglia di Mezcal tocca poi inghiottire il verme. Le sembra possibile signor Marco? Tutta la sua vita chiusa in un tubetto di cartone, che lo giri e i pezzetti di vetro vanno a combinarsi come gli pare, e cinque specchi poi li ricompongono come più gli aggrada. Questo è un fatto innegabile, lo so, ed è così per tutti, ma le assicuro che la situazione peggiorò molto in quanto, anche lavorando tutto il giorno come un animale, ormai passava gran parte del suo tempo a chiedersi che cosa volesse dire tutto quel tramestio. Ora non più. Tutto quanto ricordava a stento era successo prima di arrivare ad Aperlay, dove si è stabilito in fondo alla baia nella casa sull’acqua. Dicono allevi certe conchiglie speciali, che ridotte in polvere e bollite per dieci giorni, forniscono porpora per tingere il mantello dell’imperatore, dipinge dei pescetti che la sera si frigge, beve caffé corretto all’anice secca, parla coi muri e riceve posta da Bisanzio

Aimone Sambuy

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