Alessandro Busci
Iron&ivory
28 settembre 2018_4 gennaio 2019
Alessandro Busci, Il suono bianco
In un testo splendido del 1981, Giovanni Testori, affrontando la ricerca di Nicolas de Staël, definì il grande pittore russo (naturalizzato francese) un “naufrago della luce”. Davanti alle opere di Alessandro Busci tornano alla mente le parole di Testori perché lo sguardo è scosso dallo stesso senso di naufragio e sublime inabissamento dentro un bagliore diffuso. Nelle serie più recenti delle cave, dei boschi di betulle, delle cime innevate o delle ultime marine, Busci approda infatti a una definizione del bianco che tocca punte aguzze di fulgore. «Quale bellezza, quale tragicità di splendori, quale vampa ed eternità di luci!» raggiungeva de Staël nei suoi paesaggi scomposti come spettri di colore inondati dal sole. Non sono diversi i muri di luce che salgono lungo le pareti a picco di Carrara, vertigini di marmo affettate dall’acciaio; Busci le trasforma in potenti geometrie, solidi di pietra nello spazio assoluto.
Lo stesso bianco d’avorio punteggia i tronchi friabili delle betulle che si sfogliano nel silenzio di un sottobosco. Qui la luce che filtra dall’alto della macchia, incenerisce la nitidezza del tratto. I pennelli giapponesi garantiscono linee di confine esatte ma lasciano poi al gesto istintivo la maceranza delle ombre. Così, osservando il mare che si arrotola nella baia, dal blu profondo delle acque mosse affiora la schiuma. Prima di infrangersi contro la banchina, diventa vapore acqueo, fresco ma soffocante. «Quando la neve si scioglie, dove va a finire il bianco?» si chiedeva Shakespeare. E quando l’onda si rompe? Il bianco svanisce nell’aria. Ma Busci lo cattura prima che ciò accada. Sugli speroni di roccia delle montagne più impervie, i ghiacciai restano aggrappati con ostinazione. Non c’è estate sulle vette di Busci. Il bianco sedimenta come un deposito calcareo nella biosfera.
Pittore “di materia”, erede della lezione di Antoni Tàpies o Anselm Kiefer, insegue la germinazione spontanea, l’ebollizione primordiale di una sostanza che muta a contatto con un altro reagente. Questo succede nel momento in cui gli smalti scivolano sulle lastre ossidate del corten. La ruggine non è mai stata così colorata. Busci indirizza gli esiti con pratiche alchemiche. Aumenta le dosi d’acqua, lascia che i fluidi scorrano in sottotraccia, trovino canali ipogei per erodere il metallo e poi sgorgare da faglie nascoste generando improvvise fioriture. Tornano in mente certi scultori moderni che, per prassi, lasciavano i propri gessi all’aria aperta, affinché gli eventi atmosferici, vento, sole, pioggia, ne graffiassero la pelle, rosicchiandone l’anima.
Nelle sue città bruciate dal tramonto, nel cielo pesto sopra le ciminiere, nelle architetture di calcestruzzo, nelle tempeste raggrumate sulle autostrade, persino nei vulcani dalle eruzioni ematiche (meravigliose creature risvegliate nella notte), Busci ci aveva già convinti che il linguaggio della materia fosse fatto di mutamenti lenti e graduali laddove il magma del colore si cristallizza punteggiando la superficie di efflorescenze. Non a caso Busci, l’alchimista, parla spesso di reazioni chimiche, geologia, formazione delle pietre preziose. Il suo immaginario corre alle tensioni sismiche contenute nel ventre della terra. Solo che adesso, dopo giorni di cenere e fuoco, di profili urbani incendiati dal crepuscolo, la materia restituisce il candore originario e verginale del bianco. Cattedrali di marmo o di neve si ergono all’orizzonte. «Il bianco – diceva Kandinskij – è un mondo così alto rispetto a noi che quasi non ne avvertiamo il suono, è un nulla prima dell’origine».
Ma, se il bianco di Busci ha un suono impalpabile e il suo valore espressivo scava alle origini della forma, viene il dubbio sul ruolo dei soggetti. Tanta letteratura romantica che tende a ricondurre l’iconografia della montagna o del mare in burrasca all’Inghilterra di Turner o del sublime malefico, dovrebbe fare i conti con la vocazione rigorosa di un pittore che “costruisce” il paesaggio prima di interiorizzarlo. E che costringe la materia a reagire duramente per testarne il punto di rottura. Insomma, Busci usa il paesaggio come Ferroni usava gli oggetti. Come un alibi per indagare qualche cosa di più “alto”, per citare Kandinskij. Ovvero luce, spazio, mistero del creato. Questo spiega la magnifica ossessione con cui torna su inquadrature identiche con caparbietà rituale.
I boschetti di betulle non sono l’ameno scenario di una favola ottocentesca. Il bianco scandisce il ritmo di una composizione perfetta. Togliete un tronco e crollerà l’eufonia. Le geometrie immacolate di Carrara sono astrazione allo stato puro. I sentimenti della montagna violata lasciamoli ai giganti del divisionismo. Busci controlla il panorama con la destrezza di uno scacchista, salvo poi chiedere alla materia di fare il suo corso; coagulandosi, rapprendendosi, screpolandosi, sollevando ciuffi inattesi. Non so se certe concessioni all’azzurro alludano a squarci di cielo dopo la tempesta. Restano l’alibi di un racconto. Posti in relazione al bianco, blu e celeste ne esaltano il candore. La ricerca dell’assoluto si gioca su questo calcolato equilibrio di pesi e di relazioni virtuose fra forma esatta e materia ribelle, fra il bianco e tutto il resto del mondo.
Chiara Gatti