Erwin Olaf

15 novembre 2024_28 febbraio 2025

 

Da venerdì 15 novembre 2024, la stagione espositiva della galleria Al Blu di Prussia (via Gaetano Filangieri, 42 – Napoli) – prende il via con la mostra “I Am” di Erwin Olaf, a cura di Maria Savarese.

L’opera del fotografo Erwin Olaf, prematuramente scomparso nel 2023, per la prima volta a Napoli, è ospite della Fondazione Mannajuolo in collaborazione con lo Studio Erwin Olaf e la galleria Paci Contemporary.
La mostra, dal titolo “I Am”, aggiunge un tassello importante al mosaico di esposizioni che negli ultimi anni la Fondazione Mannajuolo ha dedicato ai grandi autori della fotografia contemporanea.

Erwin Olaf è stato il ritrattista ufficiale della famiglia reale olandese nel 2017 ed ha disegnato la moneta nazionale in euro per il re Willem-Alexander nel 2013. Ha esposto nei più importanti musei del mondo e le sue opere sono presenti in numerose collezioni private e pubbliche, come il Rijksmuseum e lo Stedelijk Museum, di Amsterdam; Fonds National d’Art Contemporain, Parigi; Museum Ludwig, Colonia; Museum Voorlinden, Wassenaar, Paesi Bassi; North Carolina Museum of Art, Raleigh, Stati Uniti; Art Progressive Collection, Stati Uniti e il Museo Pushkin, a Mosca. E’ in preparazione per l’autunno 2025 la prima retrospettiva pubblica allo Stedelijk Museum di Amsterdam.

In esposizione, negli spazi della galleria Al Blu di Prussia, una selezione di scatti realizzati dall’inizio degli anni duemila, fino al 2020, tratti dalle serie Royal Blood (2000), Rain (2004), Fall (2008), Grief (2008), Dawn (2009), Keyole (2012), Hamburg (2014), Shangai (2017), Indochine (2017) e Palm Springs (2018), che rientrano nella piena maturità artistica dell’autore.

 

“Fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento”, scrive la curatrice Maria Savarese, “Olaf iniziò ad orientare l’”attivismo visivo” documentaristico e provocatorio degli esordi – così come lo ha definito Shirely den Hartog, sua storica collaboratrice ed oggi alla guida dello Studio – verso una visione della fotografia più riflessiva, pensata, tecnicamente costruita, realizzata sempre in interno, con uno sguardo rivolto all’arte antica olandese”.
In queste immagini la scena è diventata più complessa, la costruzione dei set ha assunto toni cinematografici con specifici riferimenti agli anni cinquanta, l’atmosfera è animata da un senso di sospensione del tempo, dello spazio e delle emozioni dei protagonisti, personaggi hopperiani, enigmatici, spesso solitari, sospesi in una dimensione di perenne attesa, fra assenza e presenza.
Insieme alle fotografie sono proiettati, nella sala cinema della galleria, sei lavori di video arte realizzati da Olaf fra il 2003 e il 2020.

ERWIN OLAF – I Am
“I can’t do better than this, this is who I am, this is who I was”.
Erwin Olaf

La Fondazione Mannajuolo è lieta di presentare, per la prima volta a Napoli l’opera del fotografo olandese Erwin Olaf, scomparso prematuramente nel 2023.
La mostra, dal titolo I Am, realizzata in collaborazione con lo Studio Erwin Olaf e la galleria Paci Contemporary, aggiunge un tassello importante all’ampio mosaico di esposizioni organizzate negli ultimi anni dalla Fondazione, dedicate ai grandi autori della fotografia contemporanea.
Nato a Hilversum nel 1959 e trasferitosi presto ad Amsterdam, Olaf si laureò alla scuola di giornalismo di Utrecht con l’intenzione di diventare un fotografo documentarista, ottenendo nel 1984 il suo primo lavoro per la rivista “Vinyl”, un reportage sulla vita notturna di Amsterdam e sulla comunità gay.
In questi anni, determinante per lui fu l’incontro con Hans van Manen, noto coreografo e fotografo olandese, allievo di Robert Mapplethorpe, che influenzò profondamente la sua ricerca artistica. Dai primi scatti, fino alla serie Chessmen pubblicata da “Focus Amsterdam” nel 1988, con cui ricevette il premio Young European Photographer of the Year, i suoi riferimenti furono oltre Mapplethorpe, anche Weegee, Witkin, Helmuth Newton, Candida Hofer, Andreas Gursky ed altri esponenti della Scuola di Dusseldorf, insieme a quella fotografia di moda che da Platt Lynes, arrivava fino a Horst.
Fra gli anni ottanta e novanta, Olaf iniziò ad orientare l’“attivismo visivo” documentaristico e provocatorio degli esordi – così come lo ha definito Shirley den Hartog, sua storica collaboratrice ed oggi alla guida dello Studio – verso una visione della fotografia più riflessiva, pensata, tecnicamente costruita, realizzata sempre in interno, evidente già in Royal Blood. Con questo lavoro, non solo volle dimostrare quanto ormai la sua indagine fotografica fosse indirizzata altrove, ma soprattutto come le recenti scoperte di nuove modalità tecniche, ad esempio photoshop, fossero artefici di inedite possibilità espressive.
Le opere esposte qui Al Blu di Prussia, realizzate dall’inizio degli anni duemila, fino al 2020, sono tratte dalle serie Royal Blood (2000), Rain (2004), Fall (2008), Grief (2008), Dawn (2009), Keyole (2012), Hamburg (2014), Shangai (2017), Indochine (2017) e Palm Springs (2018) e rientrano in questa fase di sopraggiunta consapevolezza artistica.
In esse la scena è diventata più complessa, la costruzione dei set ha assunto toni cinematografici con specifici riferimenti agli anni cinquanta, in particolare ad autori come Visconti, Pasolini e Fellini, o più di recente, al David Lynch di Twin Peaks, o ancora a serie come Mad Men, l’atmosfera delle immagini viene permeata da un senso di sospensione del tempo, dello spazio e delle emozioni dei protagonisti, personaggi hopperiani, enigmatici, spesso solitari, sospesi in una dimensione di perenne attesa, fra assenza e presenza.
Le inquadrature sono tecnicamente perfette, la luce sembra scolpire le figure, niente è lasciato al caso: dall’ambientazione degli interni, agli abiti, a tutti i dettagli che compongono la scena, di fronte alla quale l’autore invita sempre l’osservatore a spingersi oltre l’apparenza.
Affrontando temi come l’ipocrisia, la violenza, il dolore, la solitudine, egli afferma “It’s not that I want to photograph unhappiness, but I want to photograph emotions I actually feel and life can be unconfortable. I want you to come into my exhibition with a certain mood and come out with a different one – possibly enriched”.
L’opera matura di Olaf è intrisa di riferimenti colti, innanzitutto alla tradizione pittorica olandese. Quando, infatti, nel 2003, il Rijksmuseum organizzò una retrospettiva dedicata alle xilografie e ai disegni di Hendrick Goltzius, fra i protagonisti dell’arte del XVI secolo, fu solo lui ad essere invitato a parlare del suo lavoro di artista visivo nell’epoca contemporanea.
Dall’arte rinascimentale deriva, innanzitutto, la sua predilezione per generi come il ritratto, la natura morta, l’interno con figure – queste ultime tratte a volte dal repertorio mitologico o allegorico, anche solo nella scelta dei nomi, come Hope ad esempio – insieme a quel soffermarsi sugli aspetti descrittivi del corpo, pelle, muscoli, gesti, dietro ai quali intercettare la sfera emozionale e sentimentale della condizione umana.
Analogo discorso per il particolare utilizzo della luce, catturata, manipolata e piegata alla volontà della propria cifra stilistica, che deriva dalla conoscenza di altri protagonisti dell’arte classica, quali Cornelis van Harlem, Johannes Verspronck, Jan Mostaert, Pieter Saenredam, Joannes Vermeer e, non ultimo, Rembrandt.
Le fotografie di Erwin Olaf raccontano storie e riflettono sul senso del tempo. Quello che intercorre fra eventi presunti, come in Keyole, ad esempio, serie ambientata negli anni ’30, in cui l’atmosfera è appunto quella di un’attesa e di una sospensione inquietante, dove si percepisce che qualcosa non va nella famiglia ritratta, anche se apparentemente non succede nulla. In Rain, invece, il racconto, stilisticamente permeato di riferimenti al pittore e illustratore Norman Rockwell, trova il suo apice narrativo in quell’istante che intercorre fra azione e reazione.
Fra il 2017 e il 2018, Olaf crea la trilogia sulla città: Berlino, Shanghai, Palm Springs. Una personale indagine sul concetto di metropoli in cui, nella prima, evidenti sono i riferimenti ad Otto Dix, amato soprattutto per la sua capacità di coniugare la dimensione documentaristica con quella teatrale, mentre in Shanghai l’interesse è rivolto agli adulti ed ai giovani cinesi, sottoposti quotidianamente ad uno stress alienante, vivendo in una città così in rapida evoluzione.
Con Palm Springs ci si trova di fronte ad un nuovo punto di svolta della sua ricerca.
Approdato nella città californiana per un workshop di quattro giorni nell’ambito del Palm Springs Photo Festival, dopo quindici anni di lavoro in studio, in cui tutto veniva maniacalmente studiato e controllato, decise di scattare interamente in esterno.
Sicuramente fu molto colpito da questo luogo, sviluppatosi fra gli anni cinquanta e sessanta, collocato nel bel mezzo del deserto, senza una storia radicata, caratterizzato da marcate contraddizioni socio – economiche di cui aveva già letto nei libri di Walter Mosley. Questo scenario contraddittorio viene descritto molto bene in una delle foto esposte in galleria, dove una madre e la sua bambina sono ritratte durante un picnic all’aperto, ma ai margini di un parco eolico.
Nel 2019, in occasione dei suoi sessant’anni, viene pubblicata la monografia dedicata all’intero lavoro fotografico di Olaf, I Am, in concomitanza con l’antologica ospitata nello stesso anno al Rijksmuseum di Amsterdam, che già aveva acquisito in precedenza un nucleo di sue 500 opere.
Sfogliando le pagine di quel libro, concepito come un diario personale della sua intera esperienza artistica, si comprende pienamente quanto Erwin Olaf sia stato e sarà per sempre il cantore della libertà, del desiderio, dell’uguaglianza sociale, sessuale, individuale, dell’inclusione, dei corpi altri, della disinibizione, della critica sottile e colta all’ipocrisia sociale, e soprattutto quanto il senso della sua opera e della sua intera vita possa essere sintetizzato in un’unica affermazione: “I exist in freedom, therefore I am.”
Maria Savarese

 

 

 

 

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