Geppy Pisanelli
Passage
Paola de Ciuceis in conversazione con l’artista Geppy Pisanelli
PDC – Come e quando nasce il suo interesse per l’arte? E come si sviluppa?
GP – L’attitudine al disegno si è manifestata sin da bambino, i miei ricordi risalgono all’età di 7-8 anni, mentre mia madre ricorda che disegnavo anche a 3 anni. I primi lavori a olio, una veduta di Capri, un paesaggio ed un puma che scendeva da una roccia, li ho realizzati ad 8 -9 anni. Ovviamente come diceva Picasso “tutti i bambini sono artisti, il problema è come rimanere artisti una volta cresciuti”. Per fortuna, devo dire, il bisogno di esprimermi attraverso il disegno è rimasto anche in età adulta. Durante gli studi universitari, che sono stati studi scientifici in medicina veterinaria, dopo i quali ho conseguito un Dottorato di ricerca in virologia, dedicavo ore quotidianamente al disegno ed alla pittura. Ho dipinto sempre, in maniera costante ed è stato un continuo sperimentare. In principio, la mia pittura era molto studiata, la fase progettuale era molto lunga e complessa, con una dedizione al disegno preparatorio, direi quasi maniacale. Adesso, mi concedo più libertà.
Per quanto riguarda i temi, cerco di analizzare quelle che sono le domande fondamentali dell’uomo. Chi siamo? Dove andiamo? Qual è il senso della nostra esistenza? Nei primi lavori la figura umana era una costante ma, nel tempo, l’ho sostituita gradualmente con oggetti che ne richiamano la presenza. I soggetti che mi appassionano sono immagini archetipo e atemporali, scelti tra quelli che io definisco unità minime di sopravvivenza e comuni a tutte le popolazioni e latitudini. Ad esempio, le zattere negli ultimi lavori, le tende in quelli un poco precedenti. Diverso è il lavoro del ciclo “Clouds” dove l’approccio è più istintivo, ma senza mai trascurare la composizione ed i rapporti tra luce e ombre.
PDC – Perché la pittura come mezzo espressivo?
GP -Per me l’arte, pittura, scultura, arti visive in genere ma anche letteratura, teatro, musica, è il mezzo di comunicazione fondamentale allo sviluppo dello spirito del singolo e dell’umanità intera. La pittura è il medium d’elezione che utilizzo per comunicare e, ovviamente, quello che reputo abbia le maggiori potenzialità espressive tra le arti visive. Considero il motto “l’arte per l’arte” come qualcosa di sterile e senza senso. L’arte che si risolve solo nell’esperienza estetica e formale e non nei contenuti è mancante di una parte fondamentale. C’è, poi, da aggiungere che allo stesso modo un’arte che trova la sua ragion di essere, solo nei contenuti e trascurando le ragioni estetiche, è poco interessante. La grande arte è quella che combina entrambe, etica ed estetica. Ed è tanto più grande quanto più universale è il suo messaggio. Naturalmente, sono anche in grado di apprezzare, da un punto di vista puramente intellettuale, ciò che altri hanno fatto partendo da presupposti opposti ai mie, cioè “l’arte per l’arte” o il concentrarsi solo su forma e colore senza nessun’altra connotazione.
PDC – Quale messaggio vuole trasmettere?
GP – Ciò che desidero è che lo spettatore, dopo aver visto miei lavori, inizi a porsi più domande. Per me, il compito dell’arte, non è quello di dare massaggi o risposte ma di porre domande e stimolare l’intelletto; più è spronato, più si crea una coscienza critica, quindi, più persone con capacità d’analisi nel decifrare la realtà, è in questo momento che l’estetica coincide con l’etica. Quanto ai contenuti, ciò che mi interessa è creare immagini che oltre a riprodurre la realtà rimandino ad figurazioni “mentali” che conducono l’osservatore ad una riflessione più ampia sulla valenza della pittura come mezzo espressivo per interpretare la realtà. Se dovessi esprimere in sintesi il mio lavoro, lo definirei “minimalismo narrativo”. Ovviamente, si tratta di un ossimoro, in quanto nel minimalismo il concetto di narrazione è abolito e l’opera si risolve solo nella struttura formale e concettuale. Tuttavia, nel mio caso, il termine minimalismo sta a indicare, appunto, una pittura in cui la composizione è essenziale, ridotta per cosi dire a termini minimali, pochi elementi, che tuttavia riescono a sviluppare un percorso narrativo, a raccontare o suggerire una storia.
PDC – Qualche incontro fondamentale?
GP -Vivere 6 mesi l’anno a New York, ha diversi vantaggi per un’amante dell’arte ma non solo. Quale che sia il proprio interesse, lì, lo si trova alla massima espressione; ci sono i musei e le gallerie più interessanti al mondo, per cui ci sono mostre in quantità elevata ma soprattutto di qualità; io stesso ho avuto modo di vedere opere di artisti che conoscevo solo attraverso libri e cataloghi. Un incontro fondamentale è quello con l’opera di un artista che considero sostanziale, Turner; al Metropolitam Museum, in occasione della retrospettiva, ricordo di essere rimasto davvero colpito da come Turner usava la luce e i colori, in particolare l’uso del giallo. Credo di non aver provato mai un piacere intellettivo cosi intenso!
PDC – A spasso tra i secoli…a quale artista farebbe visita?
GP -Ci sono tantissimi artisti del passato cui farei visita. Sono tutti quelli cui ho guardato e guardo, sulle opere dei quali mi soffermo attratto dalla scelta delle soluzioni formali e compositive più interessanti filtrandole attraverso la mia idea di arte. In questo viaggio tra i secoli visiterei anche degli artisti contemporanei. Partirei con Caspar David Friedrich, grande pittore romantico tedesco, che ha influenzato diverse generazioni di artisti incluso quelli del 900, tra cui Gerard Richter. Alcune sue opere sono strabilianti sotto tutti i punti di vista. Poi mi piacerebbe fare una capatina da Bosch e dai Brughel nei Paesi Bassi. Bosch è un visionario, che ha anticipato di secoli il surrealismo; la sua fantasia è illimitata, sembra provenire da un altro pianeta.
Invece di Brugel, mi affascina la sua capacità immaginativa e il fatto che dietro ad ogni sua opera si può leggere una storia ed una morale. In Italia, invece, visiterei tutti gli artisti del Rinascimento ai quali dobbiamo la nostra identità culturale, dalla triade Michelangelo, Raffaello e Leonardo a Tiziano tanto per citarne alcuni. Caravaggio per la sua carica rivoluzionaria, Lorenzo Lotto per l’intensità espressiva dei suoi ritratti cui Caravaggio stesso ha guardato molto. Tra i contemporanei andrei a studio da Anselm Kiefer e mi piacerebbe disquisire di arte con Kounellis, entrambi hanno fatto e continuano a fare un lavoro epico; li ho conosciuti entrambi a New York, ed è stato davvero un gran piacere. Poi c’è David Hockney, un gigante, spettacolare il suo lavoro pittorico e interessantissimo il suo libro The secret knowledge, Il segreto svelato dove dimostra come i grandi maestri del passato siano arrivati a dipingere in maniera eccelsa utilizzando dispositivi ottici quali gli specchi concavi e la camera oscura; sudi lui esiste anche un documentario edito dalla BBC, consiglio a tutti di vederlo. E mi fermo qui, questa lista potrebbe essere infinita.
PDC – Parola d’ordine ricerca, come si divide Geppy Pisanelli tra arte e scienza?
GP – Sono fortunato, mi dedico a due discipline dello scibile umano, arte e scienza, che sono tra le cose più alte cui, secondo me, un uomo possa ambire. Sono un ricercatore dell’Università degli studi di Napoli Federico II, sono un virologo, e divido il mio tempo per la ricerca tra il Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e il Dipartimento di Microbiologia dell’Icahn School of Medicine al Mount Sinai di New York. In particolare, studio i meccanismi di immuno-evasione dei virus ad RNA, cioè le strategie che i virus usano per evadere il sistema dell’immunità innata e, in ultima analisi, causare la malattia. Sul versante arti visive, invece, il mio interesse ovviamente è rivolto alla pittura come linguaggio elettivo di espressione. Sono due attività molto impegnative che mi prendono tutta la giornata ed anche la notte; per questo parlavo di discipline, perché per praticarle occorre un impegno ferreo e una dedizione assoluta. Apparentemente sembrano ambiti distanti tra loro ma i punti in comune sono tanti: per entrambi ci vuole un interesse costante e quotidiano, uno studio profondo e una conoscenza accuratissima delle regole. Si esercitano fondamentalmente in solitudine, tuttavia per ambedue si ha bisogno di un confronto costante con i colleghi ricercatori e/o artisti. La differenza, fondamentale, è nel fatto che l’arte si basa sull’unicità del prodotto artistico, la scienza sulla riproducibilità dei dati ottenuti.
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Rassegna stampa
Per lo più di formato maxi, a metà tra il reale e l’immaginifico e sempre in bilico tra segno e significato, i dipinti di Geppy Pisanelli, artista italiano based in New York dal 2007, sono racconti minimi che contemplano gli abissi dell’animo umano attraverso la natura. Composizioni figurative dai risvolti concettuali nelle quali preferendo gli oggetti ai soggetti – fatta rara eccezione la figura dell’uomo è sempre assente – l’artista coinvolge l’osservatore in un divertissement di luci e ombre; suggerisce storie nelle quali, a partire da un dato reale e oggettivo di pochi elementi sostanziali, via metafora, pian piano si costruisce un dialogo che conduce l’interlocutore in una dimensione altra. Narrazioni essenziali ed esistenziali, dense di simboli e messaggi cifrati, e tutti da cogliere, nelle quali, lo spettatore, è invitato al dialogo e alla riflessione con il privilegio di avere sempre l’ultima parola. Ed è così anche per la più recente produzione di Pisanelli, in particolare per Passage: il corpus di 4 tele nucleo fondante della mostra napoletana, al Pan Palazzo delle Arti Napoli, che ne mutua anche il nome, appunto, Passage. Un’occasione per proporre, assieme a questi lavori realizzati volutamente per l’occasione, un corpus di oltre 40 opere dal 2007 ad oggi e ripercorrere le tappe essenziali della sua ricerca artistica.
In linea con l’immaginario iconografico più tipico di Geppy Pisanelli – quei luminosi paesaggi di cieli e deserti colti alle prime luci dell’alba o al tramonto, in ogni caso dominati da un senso di sospensione che oscilla tra inquietudine e atarassia – Passage è una complessa idea progettuale che nasce già due anni fa in concomitanza con The Lifesaver (2013, olio su tela, 192×155 cm) nel quale, al centro dell’enorme tela, si osserva solo un minuscolo salvagente cui l’artista affida il compito di evocare un racconto di abbandono o di speranza. Un lavoro sulla solitudine, l’assenza, il senso di allontanamento che derivano dall’isolamento approfondito, poi, con la mostra alla Casa Italiana Zerrilli-Marimò della New York University* (giugno 2015) – sua prima personale in un’istituzione pubblica a New York – dove affronta il tema Passage con i cicli Clouds, paesaggi di nuvoleplumbee che lasciano intravedere frammenti di cielo, crepacci e dune desertiche abitate da tende, e Black Painting, altalene, pozzi, torrette petrolifere, ponti che dal nulla al nulla collegano l’infinito sospesi nel vuoto. Di qui, nel continuo ponderare sull’andamento e le transizione degli animi l’idea riprende vigore e si amplia ma sempre con quello stesso “minimalismo narrativo”, così come l’artista ama definire il proprio stile.
Se, sinora, filo conduttore del lavoro sul cammino dell’uomo e le sue emotività erano state le torrette e le casette sui tralicci, i fiumi neri, le muraglie in mattoncini rossi interrotte, i ponti sospesi senza inizio né fine, l’altalena, il pozzo e, ancora, le tende, il cerchio, il salvagente, ora è la volta delle zattere in mare scelte come simbolo di un individuo non necessariamente alla deriva. Il tema, già in fase di sviluppo e già più volte ripreso diventa urgenza irrinunciabile alla luce dei più tragici eventi legati alle migrazioni dal Medio Oriente verso l’Europa. E, dunque, Pisanelli lo affronta ponendo al centro quell’unità minima di sopravvivenza che, archetipo comune alle culture di ogni latitudine, evoca l’attualità dei profughi solo di primo acchito prestandosi, poi, ai consueti ragionamenti che spaziano dalla condizione dell’uomo moderno a quella dell’arte.
Sui toni del blu, dall’acquamarina al notte e senza trascurare la gamma dai rosa al viola, le quattro tele si prestano a duplice lettura: in sequenza come altrettanti capitoli di una stessa vicenda oppure singolarmente, indipendentemente l’una dall’altra. Senza soluzione di continuità, cielo e mare si congiungono, si riflettono l’uno nell’altro sino ad annullarsi e a perdersi nell’immensità. Unica presenza, la zattera: prima una da sola, poi un gruppo che sopraggiunge in sciame, quindi, in cerchio come in un conciliabolo e, infine, tutte in viaggio, insieme, in formazione ad S (speranza?) direzione infinito. Un discorso alquanto poetico e non solo dal punto di vista intellettuale; anche sul versante formale, difatti, consente all’artista di confrontarsi ulteriormente con la dimensione maxi cui è particolarmente incline. Un cammino ai limiti dell’onirico scandito da una ponderata tavolozza di tinte fredde che, facendo per la prima volta ingresso nella gamma dei colori abitualmente preferiti da Pisanelli, la completano aggiungendosi a quella dei colori caldi sinora preferiti che vedevano prevalere l’intera varietà dei rossi e degli aranci, dei gialli e delle terre, oltre naturalmente il bianco e il nero. Nell’uno e nell’altro caso, i risultati sono atmosfere rarefatte che dall’osservazione della realtà sensibile conducono all’astrazione mentale stimolando sensazioni contraddittorie il cui intento è proprio quello di innescare riflessioni su temi universali eppure sempre urgenti nel quotidiano di ogni singolo individuo impegnato, continuamente e per sua natura, con pensieri che variano dalla ciclicità del tempo alle difficoltà dell’esistenza, dall’isolamento all’incertezza del destino. Nelle sue composizioni, sempre di grande rigore geometrico e prospettico, Pisanelli nasconde messaggi codificati che, secondo il livello di attenzione e d’interesse offrono interpretazioni differenti sulla pittura in sé come mezzo espressivo e come medium di collegamento con la realtà della quale propone immagini che non necessariamente la riproducono ma ne sono semplicemente allegoria.
Paola de Ciuceis
* Casa Italiana Zerrilli-Marimò della New York University. Fondata nel 1990 dalla baronessa Mariuccia Zerrilli-Marimò mecenate in memoria del marito Guido, la Casa Italiana Zerrilli-Marimò della NY (22 W 12th St, New York, NY 10011), diretta da Stefano Albertini promuove con successo progetti e «cervelli» italiani negli States.