Manigrasso

sculture
14 dicembre 2011_7 gennaio 2012

Sculture come fotogrammi di un racconto.

Come è noto, la cosiddetta “critica d’arte” non è una scienza esatta; essa è spesso imprevedibile: una visione, un’emozione che esce dal consueto e che “parla” direttamente alla nostra sensibilità. Come accade con queste sculture di Giuseppe Manigrasso.

Nato a Taranto, ma naturalizzato subito napoletano, Manigrasso esordisce come poeta visivo e artista d’avanguardia fin dalla metà degli anni sessanta. L’ho conosciuto nel ’68 da Lucio Amelio, che non era ancora il gallerista internazionale che si affermerà dopo l’incontro con Joseph Beuys, ma un estroverso “operatore culturale” (allora si diceva così) di ritorno dalla Germania che, grazie al suo tedesco perfetto, faceva il traduttore scientifico presso l’Italsider di Bagnoli e aveva aperto una galleria d’arte al Parco Margherita: due sale e una cucina che serviva anche da camera da letto.

Manigrasso gli propose le sue poesie e i suoi progetti d’arte tra il minimalista e il concettuale. Una sua “azione” è documentata nel numero due della rivista “Made in” stampata nel dicembre del 1968: otto foto notturne, realizzate da Fabio Donato, nelle quali a malapena si intravedono una serie di persone che lanciano per aria, o indossano, sacchetti di plastica trasparente, all’entrata della villa comunale.

Manigrasso era bello, biondo e “sciupafemmine”, un po’ architetto e un po’ poeta, artista e designer, performer e regista. Generosamente dispersivo, irrequieto e impaziente nella vita privata come nell’attività artistica, portava le sue poesie e la sua contagiosa voglia di stupire a Spoleto come a New York, a Barcellona come a Firenze, a Venezia come a Sidney. A Lima, in Perù, presso l’Istituto Italiano di Cultura, teneva seminari sul design e corsi nelle Università di Quito, Santiago del Cile, La Paz. Nel 1980 tornò a Napoli, dove aprì una galleria, la “N7”, che ebbe vita breve e travagliata. Alternava il suo lavoro d’architetto ai suoi impegni artistici. Di lì a poco fondò la rivista “AURA, Arte Urbanistica e Architettura” e qualche anno dopo entrò tra i consulenti del Comune di Napoli per il “Piano del Colore” nel Programma Straordinario d’Edilizia Pubblica del dopo terremoto. In questo periodo rinnovò la sua amicizia con Dely Pezzullo, Fabrizio Mangoni e Salvatore Pica, che in seguito gli saranno vicini nei momenti difficili del suo ictus, della progressiva riabilitazione, del ritorno alla pittura e alla scultura, “con la mano sinistra”.

Oggi Manigrasso è un artista anomalo. Un artista che usa il disegno e la creta come supporto per rivelarci una realtà fatata. Una sorta di paesaggio incantato, dove le parole non hanno più un corrispettivo grafico e l’alfabeto fonetico è in equilibrio instabile o emerge da un silenzio irreale.

Ciò che è maggiormente evidente, in questi suoi ritratti di amici e colleghi, è la materia scabra e ruvida di cui sono composti. Una materia raffinatissima che contrasta con la plastica morbidezza della creta e che si presenta come pietrosa o come – più raramente – metallizzata o porcellanata. Una materia che spinge lo spettatore verso l’opera, ipnotizzandolo, sfidandolo al gesto – impossibile da trattenere – di toccarla per sperimentarne la consistenza.

La riacquistata competenza e sicurezza nel disegno e nella volumetria sono funzionali a una commovente poesia. Perché l’opera di Peppe Manigrasso è tutta nel suo impatto immediato, nelle emozioni che fa risuonare dentro di noi toccando le nostre corde più profonde. La sua è un’arte che non va confusa con la “ritrattistica”, ma che incanta proprio per quel suo non fornire né cercare somiglianze fotografiche, in un’armonia perfetta dove tutti sono riconoscibili e al tempo stesso tutti sono in una realtà altra, senza tempo e attualissima. Forse tutto comincia con la sensazione che queste sculture, così solide, sono anche così leggere da potersi librare in volo. La logica dell’arte di Peppe Manigrasso – se una logica vi si può trovare – è quella che presiede i sogni. Queste “teste”, cesellate in ore e ore di lavoro, sono ora l’una accanto all’altra, come se fossero meri fotogrammi dello stesso film. Il racconto di queste sculture è, infatti, fortemente autobiografico: a generarlo, è stato un percorso verso l’elaborazione di una nuova emotività, un’ascesa progressiva o uno scandaglio psicologico alla ricerca della parte più profonda dell’artista.

MARIO FRANCO

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