Vittorio Pescatori
foto – colloqui
4 maggio_11 giugno 2011
Lo squallore attraente del fotografo poeta
Vittorio Sgarbi,2003
Ci sono molti artisti, o che si chiamano tali, che usano, come mezzo espressivo prevalente, la fotografa e vengono molto ammirati per la qualità delle loro idee o per l’intelligenza delle loro composizioni.
Fotografie, nient’altro che fotografie, che sembrano rinnegare la loro natura per proiettarsi in una diversa dimensione, soprattutto psicologica.
Cosicché l’apparente certezza documentaria, il rispecchiamento delle cose che la fotografia garantisce sono caratteri residuali, perfino fastidiosi che devono essere rimossi. Da questa colossale rimozione dipende la disponibilità, la convenzione accettata per cui questi “artisti” non devono essere chiamati fotografi, con un’implicita considerazione negativa di quella natura che sembra così ripudiare la sua essenza come fosse vergogna. Non ho mai avvertito questo atteggiamento davanti alle opere, serenamente fotografie, di Vittorio Pescatori, la cui misura, la cui eleganza impediscono di definirsi “artista”, e soprattutto di rinnegare l’identità profonda dello strumento che usa. Dunque Pescatori usa la fotografia, in modo esclusivo; è un fotografo; ma, più di ogni altro che intende piegare la fotografia alla sua assoluta dimensione creativa, quasi prescindendo dal mezzo, è un vero artista. Anzi, è un poeta.
Lo era a vent’anni fa quando montava le sue fotografie in artificiose scatole per “fare” l’artista, vergognandosi dell’immagine rubata con la fotografia che era poi l’essenza dei suoi ritratti resi più graziosi da attributi pertinenti ai costumi o alla sensibilità del ritrattato; lo è tanto più adesso che ha abbandonato quei timidi e commoventi artifici, pieni di gentilezza, grazia e discrezione, e si è affidato, toto corde, alla macchina fotografica, con lo steso spirito dei suoi colleghi “artisti”, ma con più intelligenza e meno supponenza.
Nulla di concettuale, di filosofico, nelle immagini di un Oriente sentito nelle sue fibre più segrete, nella luce dei cieli come nello squallore di vetrine e di bazaar. L’occhio curioso di Pescatori privilegia particolari insignificanti in cui la realtà sembra comporsi in virtù del caso, come in quella mirabile “Preghiera a Tozeur” dove una consueta sedia, di tubolare di ferro e di formica, dialoga con due sandali di gomma il cui proprietario fuori campo sta, poco lontano, pregando. Poesia così sottile da avere la resistenza di reggere il confronto con il mito, di evocare il sandalo di Empedocle sparito nella voragine dell’Etna. Pescatori è sobrio ed elegante.
Ma non deve dimostrare niente, né insegnarci nulla. Passeggia sulla spiaggia di Tangeri una domenica pomeriggio, e vede tre madri che guardano il mare. Tanto basta, a lui, per comporre un quadro perfetto nei rapporti fra lo spazio del cielo, la fascia del mare percorso da navi e vele, l’emergere dei corpi delle donne, la sabbia nella zona inferiore, in misura pressoché equivalente a quella del cielo. Non ti stanchi di guardarla perché, questa fotografia, è semplicemente perfetta, nelle forme come nei colori. E questo vale per ogni immagine di Pescatori, anche per quelle che più ammiccano alla pittura (romantica o impressionista) come i Miraggi, puri cieli evanescenti e nebulosi come acquerelli di Turner divenuti pastelli. Fotografia, nient’altro che fotografia, con lo stesso spirito di un altro fotografo totale quale è Franco Fontana, ma senza il limite di quello di essere fotografo versus artista. E, ancora, alcune atmosfere sono quelle dell’Atlante o del viaggio nelle città padane di Luigi Ghirri. Ma Ghirri è così bravo, così sottile, così intellettuale che, pur essendo restato fotografo, i grandi sacerdoti dell’arte contemporanea lo hanno quasi accolto nell’empireo degli artisti. Pescatori è, semplicemente, un uomo che vede, un viaggiatore curioso, uno spirito certamente decadente, un nostalgico senza lacrime, infine un’anima bella che vuole rendere giustizia al suo sguardo. La sua piccola macchina fotografica è come un block-notes, un quaderno di appunti. Appunti visivi, appendici dello sguardo. Ed egli vede con misura e senza compiacimento, ma vede oltre ciò che si vede. Anche un’essenza segreta delle cose e dei luoghi, che cattura con la sua macchina magica, non diversamente da come nelle sue antiche scatole tentava di chiudere l’essenza dei suoi amici. Ho visto gli “appunti di viaggio, fotografici e di colore” di Pescatori ripresentati alla mostra in Palazzo Reale a Milano, nella quale si alternano pastelli e tecniche miste, e anche queste ultime, ottenute con un solo strumento meccanico, altro non sono che stampe fotografiche virate con colori pastello, come fossero fotografie in bianco e nero dipinte in un secondo momento. Esse dialogano fra loro come “il frutto caduto a Gafsa”, un cocomero spaccato su una strada, e “il frutto caduto a Marrakech”, un giovane dormiente ai piedi di un muro assolato sotto la cascata di foglie di un gigantesco albero da cui quel corpo pare spiccato. In altri casi, come in “Ombre a Tozeur”, si definisce un’immagine assoluta, astratta; in altre, come “Rilassamento all’hammam di Tozeur”, si sente l’atmosfera sensuale ed erotica ovattata nel vapore del bagno turco. Anche quando si avverte che Pescatori ha precostituito l’immagine, non l’ha rubata, non ha aspettato il momento decisivo, ma si è compiaciuto di una condizione favorevole come quella di una sequenza di manifesti del presidente tunisino e di Mitterand in un dittico reiterato, o l’ha predisposta aiutando le cose a comporsi, come più raramente accade, o l’ha trovata perfetta, come in un dipinto, senz’altro che dover registrare questa perfetta armonia, come in “A Lysis nel giardino delle Esperidi in Marocco”, l’esito è di assoluta naturalezza. Al contrario, in altre circostanze, Pescatori riesce a rendere piacevole e attraente anche lo squallore, come ne”la camera fatale di Jean Genet a Larrache in Marocco”, o nella “Illuminazione all’Hotel Kalifa di Tozeur”, ambienti spogli dominati da una lampadina pendula, pieni di tensione e di mistero. Insomma, dopo vent’anni, Pescatori è maturato fino al limite della perfezione, nell’ambito crepuscolare che si è scelto, e a lui va il pieno riconoscimento di una visione del mondo originale e compiuta con l’efficacia di chi, come un grande vedutista dell’Ottocento, un macchiaiolo, mantiene una stabilità continua e costante di conoscenza e restituzione della realtà, soprattutto quella interiore, come io ho potuto verificare vedendo una quantità di immagini in questi anni, tutte ispiarate, tutte riuscite.
(da “Il Giornale”, 8 settembre 2003, per l’esposizione a Palazzo Reale Milano)